1. Proporre la Parola di Dio in modo vivo ed attuale
2. Rinnovare la catechesi
3. Imparare di nuovo il Sacramento della Penitenza
4. Aprire le Chiese locali a quella universale
5. Impegniamoci insieme in Europa per la grande
eredità cristiana
6. Superare una falsa concezione della libertà
7. Far apparire il cristianesimo non come
semplice moralismo, ma come dono
Ripensando alla intensa esperienza della Visita ad limina vissuta
con i miei confratelli Vescovi svizzeri e rileggendo le parole che il Papa
ci ha rivolto vorrei qui proporre alcuni obiettivi pastorali nel segno
di una FEDE ad un tempo INTELLIGENTE e DEVOTA. Sono persuaso che taluni
problemi della Chiesa in Svizzera nascano proprio da questo non risolto
rapporto.
1.
Proporre la Parola di Dio in modo vivo ed attuale
Di che cosa ha bisogno l’uomo nostro contemporaneo, cosa deve attendere
dalla Chiesa in un contesto di bombardamento massmediatico, in un mondo
dove non mancano certo le cose, le mille cose, ma forse si va sempre più
smarrendo il loro senso?
Ciò di cui oggi si percepisce sempre più la necessità è un messaggio
chiaro, semplice, essenziale, ma fondamentale, che faccia ritrovare le
ragioni profonde del vivere, che motivi il senso del nostro cammino, che
illumini il traguardo del nostro esistere.
Non dimenticherò più il pianto dirotto di Sebastiano, un ragazzo
di dieci anni, che durante una visita pastorale, avendo l’opportunità di
porre una domanda al Vescovo, rotto dall’emozione e dalle lacrime gli chiese:
è vero quello che mi dicono i miei genitori, che dopo la morte c’è il Paradiso?
Nel pianto di Sebastiano, nella sua domanda carica d’angoscia, c’era l’unica
domanda che dà senso all’esistere: Perché vivo? Dove vado? Quindi come
devo vivere? Qual è il senso del mio vivere? Non di tante chiacchiere ha
bisogno l’uomo, ma di avere la risposta a questi interrogativi che cercano
il senso del suo esistere. Le indicazioni che il Santo Padre, Benedetto
XVI, ha offerto ai Vescovi svizzeri, durante la Visita ad limina,
offrono la risposta e quindi meritano di essere riprese nelle loro linee
fondamentali, perché divengano guida alla nostra azione pastorale.
Gli uomini nostri contemporanei non si aspettano da noi prescrizioni,
regole, comandamenti, ma l’annuncio luminoso, la riproposta del messaggio
di Dio amore, che ha posto in atto un avvenimento, ha costruito una storia
insieme a noi.
Occorre saper riproporre questa storia, come è contenuta nelle Sacre
Scritture, ma cogliendone il cuore, non fermandosi ad un approccio storicistico,
bensì entrando dentro la profondità del mistero che ci avvolge e dovrebbe
coinvolgerci.
Non si tratta solo di conoscere il passato della storia di Dio con
l’umanità, ma di afferrarne il valore presente e coinvolgente, la sua attualità
per noi. Quando Gesù nella Sinagoga di Nazareth legge il rotolo di Isaia,
commenta dicendo: «Oggi, questa parola si compie». Se non avviene questo
incontro nell’oggi con la Scrittura, nella fede della Chiesa, la sua conoscenza
ed il suo studio restano un esercizio accademico, magari colto ed aggiornato,
ma freddo, distante, non coinvolgente, non interessante.
Dobbiamo fare nostro il metodo di comunicazione indicatoci da Giovanni
all’inizio della sua prima lettera: «Ciò che era fin da principio, ciò
che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre
mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta
visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunciamo
la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello
che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche
voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio
suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la vostra gioia sia perfetta»
(1 Gv 1,1-4).
Con le sue indicazioni il Papa vuole invitarci a comprendere che
comunicare il messaggio cristiano è ben più che fare uno scambio di informazioni,
una trasmissione di notizie e di dati: l’autentica comunicazione istituisce
una relazione personale, è incontro e dialogo nel quale mettiamo in gioco
noi stessi, il senso di quello che siamo e facciamo.
La Parola della Scrittura è parola che comunica il vero volto di
Dio, che, soprattutto attraverso i gesti e le parole di Gesù, guarisce
le ferite dell’uomo, sconfigge le paure e le angosce, ci libera da ogni
forma legalistica di religione, scruta il cuore e riempie la vita, apre
nuovi atteggiamenti umani di dedizione e di responsabilità, è continuamente
suscitata dallo Spirito, realizza la pregnante espressione di Ireneo, quando
scrive: «Gloria enim Dei vivens homo, vita autem hominis est visio Dei»
(IV Libro, cap. 20,5-7). La gloria di Dio è che l’uomo viva, ma la
vita dell’uomo è la visione-comunione con Dio.
Il Papa non si spinge ad indicare metodi e strade concrete per raggiungere
questo traguardo; forse noi, seguendo le indicazioni di un maestro competente,
il cardinale Carlo Maria Martini, possiamo ricordare le due modalità attraverso
le quali è possibile proporre la parola di Dio in modo vivo ed attuale.
È la Lectio divina.
La prima, quella classica, parte dal testo per arrivare alla trasformazione
del cuore e della vita secondo lo schema:
lettura - meditazione - orazione - contemplazione - azione.
La seconda parte dai fatti della vita per comprenderne il significato
ed il messaggio alla luce della Parola di Dio. I suoi momenti possono essere
espressi nelle due domande: come si rivela la presenza di Dio in questo
fatto? Quale invito il Signore mi rivolge attraverso di esso? Una variante
di questo metodo è il trinomio: vedere – giudicare – agire, dove
il giudicare significa comprendere il fatto alla luce della parola di Dio
e l’agire va confrontato con gli imperativi del Vangelo.
In particolare per riproporre in modo vivo ed attuale la Parola di
Dio vale la pena di ricordare i cinque momenti, in cui si articola la lettura
spirituale della Sacra Scrittura.
La lettura e la rilettura del testo (lectio): per capirecosa significa,
quali i soggetti, le azioni, i verbi, gli elementi. Bisogna fare una lettura
parola per parola, sottolineando.
La meditazione (meditatio):si riprende il testo per coglierne
il messaggio nell’oggi. Nella lectio ci si chiede che cosa il
testo dice in sé; nella meditatio che cosa dice a me oggi, nel
mio contesto.
La preghiera (oratio): ci si serve delle parole, situazioni, sentimenti
del testo per esprimere a Dio la preghiera e preparare il momento più alto
della lectio.
La contemplazione (contemplatio) nel silenzio. Consiste nel dialogare
con Gesù che mi parla nel testo, nel fermarmi davanti a lui che mi parla,
ringraziarlo, offrirmi a lui, chiedere perdono, luce e forza. Si concretizza
in tre atteggiamenti: la consolatio nel senso di presenza
dello Spirito che anima e dà una sensazione di pienezza, producendo la discretio e
la deliberatio cioè il discernimento dello Spirito che
mi fa decidere dopo aver capito ciò che il Signore vuole da me.
L’azione (actio). Che cosa mi chiede di fare il testo, come azione
semplice, simbolica o come esame di me in questo momento?
La fede nasce dall’ascolto, ci ricorda l’apostolo: «Fides ex auditu».
Non solo un ascolto che susciti l’esercizio dell’intelligenza, ma un ascolto
che apra a un dialogo orante con Colui che nella parola si rivela a me
e chiede d’essere testimoniato da una vita coerente, da un esempio vissuto.
Così, nell’esercizio della lectio divina la fede è insieme esercizio
intelligente e devoto, è comprensione e dialogo orante.
Non portiamo un messaggio nostro, ma un dono ricevuto, una notizia
rivelata che dobbiamo sempre riscoprire, approfondire, rivivere con pienezza.
Non abbiamo ricchezze umane, tesori terreni, beni materiali, ma questo
tesoro fragile della comunicazione della Parola di Dio: luce, lievito e
sale, con il quale rispondere ai nostri interrogativi, colmare le domande
più profonde del nostro cuore, convertire e rinnovare la nostra coscienza
nella forza trasformante dello Spirito di Dio. La Parola ci porta l’annuncio
che il Verbo fatto carne è morto per tutti, perché «quelli che vivono,
non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per
loro… Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova, le cose vecchie
sono passate, ecco ne sono sorte di nuove» (2 Cor 5,15-17).
Occorre ripartire dalla Scrittura, ritornare alla Parola di Dio,
Parola di vita e di immortalità, di perenne valore e di riferimento indispensabile,
se vogliamo essere, restare e crescere da cristiani. Il primato va alla
Parola di Dio. In un suo intervento il Card. Carlo Maria Martini sostiene,
con lucido argomentare, che la Bibbia è il libro dell’Europa, perché «non
è soltanto il libro che riporta le tradizioni del popolo ebraico e quelle
delle origini del cristianesimo, ma è anche libro del passato dell’intera
storia europea, come hanno riconosciuto tutti i grandi spiriti europei».
Cita a questo riguardo Goethe («la lingua materna dell’Europa è il cristianesimo»);
Kant («il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà»); Nietzsche
(«per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca.
Fra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura
di Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza che esiste tra la patria
e la terra straniera»). Ricorda che Claudel definiva la Bibbia il «grande
lessico» e che Chagall parlava dell’«alfabeto colorato della speranza»
corrispondente alle Sacre Scritture. Ma il cardinale afferma pure che la
Bibbia «è anzitutto il libro del futuro dell’Europa perché nelle sue pagine
noi riconosceremo sempre di più le nostre radici e potremo trovare in essa
le motivazioni per camminare insieme come grande popolo europeo». Infatti
«sarà sempre di più necessario dire verità forti e sincere sull’uomo, sulla
sua vita e sul suo destino, partendo dalle parole della Bibbia che derivano
dalla stessa verità di Dio. Sarà necessario dire Dio all’uomo contemporaneo
con un linguaggio chiaro e comprensibile, che esprima e la sua trascendenza
e il suo amore per l’umanità, e il bisogno dell’uomo di ogni tempo di riposare
in lui. La Bibbia contiene queste parole».
2.
Rinnovare la catechesi
Questi anni di grande impegno nella trasmissione della fede hanno fatto
maturare con sempre maggiore chiarezza la distinzione tra il momento «culturale»
della conoscenza che si realizza soprattutto in contesto scolastico, da
quello più propriamente catechetico che deve avvenire in ambito ecclesiale
collegato con il cammino della iniziazione cristiana e la progressiva celebrazione
dei Sacramenti che la connotano.
Il Santo Padre sembra richiamarci soprattutto al rinnovamento della
catechesi in ambito ecclesiale.
Per dare concretezza alle sue richieste ritengo si debba ridisegnare
la figura del catechista che deve essere al tempo stesso testimone e maestro,
profeta e amico. Anche nella figura del catechista l’intelligenza della
fede e la sua esperienza «devota» sono chiamate a saldarsi.
Testimone, cioè un segno visibile del Mistero: «è colui che ha visto,
toccato con mano» e quindi trasmette agli altri quello che ha ricevuto
dalla viva Tradizione della Chiesa. Il catechista non è chiamato a trasmettere
parole sue, ma ad essere profeta, cioè uno che parla in nome di Dio, trasmettendone
fedelmente la Parola, capace di usare il linguaggio dei simboli, dei segni,
di leggere nel segno (in-segno).
Ma proprio perché chiamato a trasmettere una Parola che non è solo
contenuto dottrinale, ma è la Persona stessa di Cristo – Lui è la
rivelazione e il Rivelatore – il catechista deve svolgere il suo compito
con affetto, con partecipazione viva, prendendo a cuore la sua missione
come espressione dell’amore di Dio. Deve essere testimone del suo credere.
Fin dai tempi apostolici la catechesi è trasmissione non solo di
un contenuto dottrinale, di ciò che uno sa, ma di quello che uno vive nell’appartenenza
alla comunità della Chiesa: il catechista non svolge una missione privata,
individuale, ma trasmette sempre la fede della Chiesa.
Proprio perché la catechesi non si esaurisce in un compito dottrinale
il catechista è chiamato a farsi carico dell’educazione alla fede dei suoi
fratelli: è maestro e insieme amico, quasi fratello/sorella maggiore. La
sua competenza deve essere catechetica, cioè preoccupata e capace non solo
di trasmettere con intelligenza le verità della fede, ma anche di integrare
la fede con la vita. Per questo tra le sue competenze non può mancare una
qualche conoscenza psico-pedagogica per favorire il passaggio nel vissuto
di quanto si comunica nella mente e nel cuore.
Come far riconoscere gli eventi, i fenomeni quali segni di qualcos’altro,
della realtà di Dio? Come spiegare con parole comprensibili il contenuto
dei segni, per percepire la presenza di Colui che opera quei segni? Viene
da qui la necessità di inventare segni per insegnare. Ma se il segno non
comunica il contenuto, il Mistero che contiene, la grazia che dona, se
non riesce ad attivare il dialogo con il divino, invisibile, interlocutore,
la catechesi non può dire di avere raggiunto il suo scopo.
3.
Imparare di nuovo il Sacramento della Penitenza
Mentre non restiamo certamente insensibili di fronte alla crisi che il
Sacramento della Penitenza ha conosciuto in questi ultimi cinquant’anni,
che hanno visto una progressiva diminuzione della pratica di questo sacramento,
dobbiamo anche riconoscere che si è percepito meglio il dinamismo della
conversione, che non si racchiude in un atto singolo, ripetuto, ma in un
cammino progressivo e continuo di approfondimento.
«Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), dice Gesù, poiché
in questo consiste la salvezza. Noi ci domandiamo se la conversione precede
o segue l’adesione al Vangelo. Non ci sono dubbi che possa realizzarsi
solo come conseguenza dell’ascolto e dell’adesione al Vangelo. Ma per accogliere
il Vangelo occorre che l’uomo avverta il suo limite e non si chiuda in
una visione antropologica autarchica, autosufficiente, autoreferenziale.
Se da un punto di vista antropologico la creatura non sa avvertire il suo
limite e perde la consapevolezza del peccato, non potrà percepire il bisogno
del perdono e quindi la necessità di una conversione.
Deve partire da qui il lavoro di ricupero per fare apprezzare di
nuovo il dono della misericordia e della salvezza.
«La diffusa mancanza di una consapevolezza della colpa è un fenomeno
preoccupante del nostro tempo», ci ricorda il Santo Padre.
L’impegno primo è quello di educare le coscienze e formarle a percepire
non solo il limite, ma la negatività del peccato. Occorre prestare attenzione
e dedicare impegno all’educazione di una coscienza retta e sensibile, che
avverta la condizione storica, decaduta della creatura. Troppe volte la
prassi penitenziale è di modestissima qualità. Prevale la ripetizione di
stereotipi ereditati dall’infanzia e che risolvono il peccato in qualche
mancanza alla pratica religiosa. La serietà del peccato è per lo più banalizzata.
C’è del vero nelle parole con le quali molti penitenti iniziano la loro
confessione: «Padre, mi aiuti perché non so che cosa dire…». Apprendere
la serietà del peccato vuol dire anzitutto riconoscere con gratitudine
i doni di Dio posti nelle nostre mani (confessio laudis) e, alla
luce di tale sconfinata misericordia, confessare le nostre colpe (confessio
vitae).
La confessione è quindi gesto serio, che può trovare spazio proprio
nel dialogo con il confessore. Ci si domanda se per riconquistare questo
senso del peccato non occorra superare la prassi invalsa di distribuire
«assoluzioni generali» non richieste da situazioni di necessità. Esse infatti
finiscono per togliere la consapevolezza della serietà del peccato e per
banalizzarlo in una debolezza che può coesistere con il perdono e la grazia.
I Vescovi svizzeri si impegneranno a predisporre un programma di
catechesi finalizzato alla formazione di coscienze mature, adulte e responsabili,
che percepiscano di nuovo in modo vivo il senso del peccato e si aprano
con gioia all’incontro personale della Riconciliazione col Signore.
È importante iniziare questo impegno di rieducazione con i piccoli,
i bambini, i ragazzi, e continuarlo con gli adolescenti e i giovani. Un
lungo cammino ci attende per ritrovare la bellezza del Sacramento della
Penitenza e rinnovare l’impegno di un’esperienza più fedele e coerente,
più profonda e vera di conversione.
4.
Aprire le Chiese locali a quella universale
Mi rifaccio ad uno scritto dell’allora card. Ratzinger, in una relazione
su I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica (in
AA. VV., I movimenti nella Chiesa, a cura del Pontificio Consiglio
per i Laici, Città del Vaticano 1999), nel quale ricorda che «la successione
apostolica significa anzitutto qualcosa che per noi è ovvio: garantire
la continuità e l’unità della fede, e ciò in una continuità che noi definiamo
‘sacramentale’. Ma a tutto questo è legata anche un’incombenza concreta,
che trascende l’amministrazione delle Chiese locali: i Vescovi ora devono
curare che si continui ad attuare il mandato di Gesù, quello di fare di
tutti i popoli dei discepoli suoi e di recare il Vangelo sino ai confini
della terra. A loro incombe di far sì che la Chiesa non diventi una sorta
di federazione di Chiese locali giustapposte le une alle altre, ma mantenga
invece la sua universalità e unità. Essi devono continuare il dinamismo
universale dell’apostolicità» (p. 31). Se questo non avviene, il ministero
della successione apostolica può intristirsi nell’espletare servizi al
mero livello di Chiesa locale, perdendo di vista e dal cuore l’universalità
del mandato di Cristo; l’inquietudine che ci spinge a portare agli altri
il dono di Cristo può estinguersi nella immobilità di una Chiesa più o
meno saldamente sistemata.
Per dirla in termini più drastici: nel concetto di successione apostolica
è insito qualcosa che trascende il ministero ecclesiastico puramente locale.
La successione apostolica non può mai esaurirsi in questo. L’elemento universale,
che va oltre i servizi da rendere alle Chiese locali, resta una realtà
imprescindibile. La Chiesa non è un’istituzione che nasce solo dal convergere
di volontà umane, ma viene continuamente ricreata dal Signore stesso quale
creatura dello Spirito Santo, segno sacro, sacramento della sua presenza
nella storia.
Due sono le componenti del sacramento: anzitutto il legame che vincola
la Chiesa all’unicità dell’Incarnazione e dell’evento pasquale di Gesù,
cioè il legame con l’agire di Dio nella storia. Ma poi, al tempo stesso,
c’è il rendersi presente di questo evento per la forza dello Spirito Santo,
che assicura novità e, insieme, continuità alla Chiesa viva.
Questa dimensione spirituale della Chiesa – opera dello Spirito –
si manifesta nei nostri giorni anche attraverso i movimenti ecclesiali,
che possono essere risposte dello Spirito Santo alle mutevoli situazioni
in cui viene a trovarsi la Chiesa.
Come le vocazioni al sacerdozio non possono essere prodotte, né stabilite
amministrativamente, così, men che meno, i movimenti possono essere organizzati
e lanciati sistematicamente dall’autorità. Devono essere donati e sono
donati. A noi tocca solo essere sollecitamente attenti a essi e svolgere
il dovuto discernimento per riconoscere ciò che in essi vi è di buono e
superare quanto vi è di meno adeguato. Tra i criteri da seguire per il
discernimento, il card. Ratzinger indica i seguenti: il radicamento nella
fede della Chiesa. Chi non condivide la fede apostolica non può pretendere
di svolgere attività apostolica, che deve comprendere gli elementi che
sempre l’hanno caratterizzata: obbedienza, povertà, castità. L’impegno
a curare una dimensione sociale ed una personale, prestando attenzione
al rischio di unilateralità, che porta ad esagerare il mandato specifico
ed il carisma particolare. Non mancano certo i rischi di incomprensioni
e di scontro con le comunità locali: diocesi o parrocchie. Le due parti
devono lasciarsi educare dallo Spirito Santo e anche dall’Autorità ecclesiastica.
I movimenti non devono assolutizzare il carisma, ma preti e Vescovi non
devono pretendere uniformità assoluta nell’organizzazione pastorale. E
non da ultimo occorre prestare attenzione a certi atteggiamenti di superiorità
intellettuale, mentre tutti devono lasciarsi guidare col metro dell’amore
per l’unica Chiesa.
Risulta dunque quanto mai opportuno il richiamo del Papa nel suo
discorso inaugurale, affinché le Chiese locali si aprano alla totalità
della Chiesa universale: «Tutti noi dobbiamo sforzarci continuamente di
trovare in questo rapporto vicendevole il giusto equilibrio, cosicché la
Chiesa locale viva la sua autenticità e, contemporaneamente, la Chiesa
universale da ciò riceva un arricchimento, affinché ambedue donino e ricevano
e così cresca la Chiesa del Signore».
5.
Impegniamoci insieme in Europa per la grande eredità cristiana
In un momento storico in cui l’ecumenismo conosce battute d’arresto, momenti
di stasi e di fatica, le Chiese cristiane potrebbero trovare nuovi incentivi
per ristabilire la piena comunione fra di loro nell’impegno a difendere
i tratti cristiani in un’Europa che va estendendosi sempre più, comprendendo
paesi di tradizione cattolica, protestante, anglicana ed ortodossa. Tutti
ricordiamo la passione con la quale Giovanni Paolo II ripetutamente domandò
che la nuova Costituzione europea riconoscesse le radici cristiane dell’Europa.
Non venne ascoltato, anche se bisogna riconoscere che il testo del Trattato,
all’art. 51, recita: «L’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente
e regolare con tali Chiese e organizzazioni, riconoscendone l’identità
e il loro contributo specifico». Ci sono buoni motivi da un punto di vista
storico, teologico e pastorale per prospettare una maggior convergenza
di tutte le Chiese a difesa della grande eredità cristiana dell’Europa.
Sarebbe immenso il compito di percorrere questi duemila anni di storia
per rilevare tutti i legami esistenti tra lo sviluppo storico della cultura,
della vita civile e pubblica nel continente europeo e i legami possibili
con il cristianesimo. Ma bisogna onestamente riconoscere che le divisioni
tra i cristiani non sono certo un buon servizio reso alla causa del riconoscimento
della comune eredità cristiana. L’appello del Papa Giovanni Paolo II: «Non
si taglino le radici da cui si è nati» esige, anzitutto dai discepoli di
Cristo, un rinnovato impegno di conversione all’unico Signore.
Persino in ideologie nate in opposizione al cristianesimo, se vengono
analizzate in profondità, si scopre che alla loro base esistono alcuni
valori cristiani, interpretati in modo unilaterale o riduttivo.
Da un punto di vista storico non si può non riconoscere la presenza
di radici cristiane nella formazione dell’anima europea contemporanea,
che tocca alle Chiese di riscoprire e di mantenere vive in dialogo costruttivo
con le altre componenti ideali.
Da un punto di vista teologico l’ideale di un’Europa unita e pacifica
appare – secondo l’intuizione di Paolo VI – come un valore ideale
estremamente bello ed importante: «Esso risponde a una visione, che noi
riteniamo moderna e saggia, dell’attuale momento storico, in cui i popoli
vivono in una stretta interdipendenza di interessi tra loro; esso è pienamente
conforme alla condizione cristiana dell’umana convivenza che tende a fare
del mondo una sola famiglia di popoli fratelli».
I teologi si chiedono se ci sia un ruolo più specifico per le Chiese
cristiane di lavorare assieme per l’unità del continente europeo e cosa
si possa fare per realizzare un rapporto più stretto tra l’Europa e il
cristianesimo. Ci si interroga se un progetto europeo abbia ancora oggi
significato nell’emergere di una cultura universale, mondiale.
Ripropongo la risposta del teologo Karl Rahner il quale ritiene che
il nostro continente debba vedere come «iscritta nel suo destino la partecipazione
ad una missione storico-salvifica, che non si esaurisce in un’epoca determinata».
A sostegno di questa sua tesi dice che esiste un legame storico-vitale
tra le culture mediterranee e il resto del mondo per la propagazione del
messaggio cristiano. È un dato di fatto cioè che l’Europa sia concretamente
il luogo di passaggio e di ponte tra l’Asia, dove il messaggio cristiano
è nato, e il resto del mondo. Questo dato di fatto non è occasionale e
estrinseco, ma manifesta il disegno e la responsabilità che l’Europa deve
sentire per la diffusione del cristianesimo nel mondo intero. In questo
si vedrebbe una esigenza addirittura teologica nel volere perseguire una
unità europea. Teologica cioè di rapporto diretto con il piano storico
concreto, voluto da Dio per la diffusione del suo messaggio di salvezza.
Da un punto di vista pastorale in quali attività occorre impegnarsi
per realizzare un impegno comune in Europa?
C’è una ricerca di nuovi valori da parte di tutti. Non ci si rassegna
al materialismo, all’edonismo, al benessere sfrenato, alla dimensione immanente
della vita.
Si cercano nuovi valori, la pace, l’ecologia. Esiste tutta una serie
di problemi nuovi, di nuove libertà, di nuovi compiti dello Stato, per
le nuove società pluralistiche, di movimento di popoli che pongono nuovi
problemi e la necessità di ricercare nuove soluzioni per affrontare le
prospettive di un mondo che non resta fermo, ma evolve, stravolgendo ogni
passata delimitazione e definizione.
È in questo quadro che si colloca l’esigenza avvertita dal Papa e
dalle Chiese di una nuova, coraggiosa e coerente evangelizzazione. La nuova
evangelizzazione non consiste nel rifare tutto da capo, quasi non avesse
alcun valore il lavoro fatto nei secoli passati. La nuova evangelizzazione
si pone in continuità organica e dinamica con la prima evangelizzazione.
Occorre essere consapevoli dell’importanza di innestare la rinnovata
evangelizzazione su queste radici comuni dell’Europa. La nuova evangelizzazione
dovrà quindi essere ecumenica; trovare e parlare un linguaggio evangelico
comune per evangelizzare assieme l’Europa. Passare «da una fede di consuetudine,
pur apprezzabile, a una fede che sia certa, personale, illuminata, convinta,
testimoniante». La nuova evangelizzazione richiede, dice, il Cardinal Martini,
la pazienza di curvarsi con amore e umiltà sulla nostra società – con tutte
le sue miserie, fatiche e pesantezze – per aiutarla a vivere in rinnovata
e maggiore pienezza il messaggio profondamente liberante del Vangelo.
Perché questo avvenga si richiedono alcune condizioni che il cardinale
indica così:
Anzitutto il costante riferimento alla Parola di Dio e una profonda
e quotidiana familiarità con essa da parte di tutti i fedeli.
Una puntuale opera e testimonianza di «autoevangelizzazione». Si
tratta cioè, di essere anzitutto noi, in opere e in parole, un «Vangelo».
Occorre che viviamo nella nostra parrocchia e nella nostra comunità l’esperienza
visibile del Vangelo.
L’impegno intelligente e continuo per una nuova inculturazione del
Vangelo, che significa l’intima trasformazione degli autentici valori culturali
mediante l’integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo
nelle varie culture. Concretamente per quanto riguarda l’Europa, che vive
di razionalità scientifica, che è profondamente urbanizzata, che è radicalmente
pluralistica, si tratta di trovare le strade per mettere il lievito del
Vangelo in queste realtà.
Un’autentica collaborazione e comunione tra le diverse Chiese cattoliche
del continente per un cammino vivo e comune.
Una sincera solidarietà con le altre Chiese cristiane d’Europa. La
nuova evangelizzazione deve infatti essere una evangelizzazione ecumenica.
Un profondo, intelligente dialogo interreligioso, in particolare
con l’ebraismo e con l’islam.
Da ultimo, è necessario riscoprire il ruolo e l’importanza dell’insegnamento
della Chiesa. L’umanesimo cristiano, che pone la centralità dell’uomo dentro
la storia, è da riscoprire e da sostenere, perché non la scienza, la tecnica,
l’economia, ma l’uomo abbia un posto centrale in ogni organizzazione nuova.
Mentre come cristiani guardiamo alla realizzazione di un’Europa unita,
dobbiamo essere consapevoli che il nostro continente è stato e deve continuare
ad essere parte essenziale dell’orizzonte del mondo. Come un tempo l’Europa
è stata il punto di partenza per una diffusa evangelizzazione del mondo,
oggi l’evangelizzazione del mondo è legata alla rievangelizzazione del
nostro continente.
Occorre non contrapporsi, ma ricercare ciò che unisce ed è nell’interesse
comune per un progressivo cammino di integrazione.
Senza convergenza tra i cristiani molti problemi restano irrisolvibili.
Occorre uno sforzo dei credenti per darsi mutuo aiuto nel vivere la fede
nelle circostanze moderne. Tocca a loro sottolineare il primato dell’interiorità
per realizzare l’unità. I credenti devono riscoprire la loro capacità non
solo di esportare tecnologia e benessere, ma di approfondire il dono di
Dio, che si è espresso nel loro passato attraverso una ricchissima storia
e di riscoprire la sorgività dello Spirito che continuamente, oggi, si
manifesta in mezzo a noi.
6.
Superare una falsa concezione della libertà
Poche parole sono abusate, travisate, tradite quanto la parola libertà.
Troppi dicendo libertà pensano che sia fare quello che si vuole, non quello
che ha una ragione d’essere. Confondono libertà con capriccio o semplicemente
con spontaneismo, non riflettendo che un gesto spontaneo, lo starnutire
ad esempio, non è libero, non dipende dalla mia libera scelta, non è voluto,
è dovuto. Quante parole si sprecano per confutare sulla libertà.
Una scelta è libera quando dipende da me, che la so motivare e di
cui mi rendo responsabile. Non c’è vera, autentica libertà senza responsabilità,
senza la capacità di motivare e rispondere dei propri atti. È contro questa
libertà irrazionale, senza ragione d’essere, capricciosa, che il Papa mette
in guardia, quando denuncia «una concezione di libertà vista come facoltà
di scegliere autonomamente senza orientamenti predefiniti, quindi come
approvazione di ogni tipo di possibilità».
Il Papa denuncia una libertà che è indifferenza verso il bene o il
male, la vita o la morte, il vizio o la virtù, il buono o il cattivo, che
non sa distinguere e valutare, offrire le ragioni che devono sorreggere
ogni scelta per essere umanamente libera, e non condizionata da interessi
esterni. Purtroppo occorre riconoscere che una nozione così essenziale
della rivelazione cristiana, come è quella di libertà, è stata scarsamente
evidenziata nell’esperienza cristiana.
Anche nella Chiesa la libertà dev’essere valorizzata: non si possono
imporre delle scelte, richiedendo ai fedeli supina adesione, dimenticando
che il cristiano è chiamato alla libertà (cfr. Gal 5,13), cioè ad una adesione
non imposta dall’esterno, ma motivata dal di dentro. Cristo ci ha liberati
dalla legge, è l’insegnamento gioioso della Lettera ai Galati,
che ci ricorda come non nell’imposizione esterna, ma nell’interiore adesione
per amore si realizza la vera libertà.
Non dunque una libertà senza «orientamenti predefiniti», come dice
il Papa, ma una libertà motivata dall’amore, dal richiamo del bene, dallo
Spirito, che ci è stato donato e che ci libera dai condizionamenti della
carne, del mondo, del peccato. Noi siamo liberi nella misura in cui ci
orientiamo alle opere dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Fatti liberi
dal sacrificio del Signore Gesù morto e risorto per noi, noi siamo definitivamente
liberi nella misura in cui aderiamo a lui. L’adesione al Signore Gesù,
che ci mostra la verità di noi stessi e delle cose, ci fa liberi nelle
nostre scelte.
Occorre rivalutare questa visione, evitando di parlare di obbedienza
in contrapposizione alla libertà e cercando di mostrare il fascino di una
vita, quella cristiana, che non ha più altro condizionamento, se non la
motivazione dell’Amore.
7. Far apparire il cristianesimo non come semplice
moralismo, ma come dono
«Penso che abbiamo davanti un grande compito;
da una parte, non far apparire il cristianesimo come semplice moralismo,
ma come dono nel quale ci è dato l’amore che ci sostiene e ci fornisce
poi la forza necessaria per saper ‘perdere la propria vita’; dall’altra,
in questo contesto di amore donato, progredire anche verso le concretizzazioni,
per le quali il fondamento ci è sempre offerto dal Decalogo che, con Cristo
e con la Chiesa, dobbiamo leggere in questo tempo in modo progressivo e
nuovo».
Il cristianesimo non è semplice moralismo, è dono. È incontro con
un evento che ci deve sorprendere, è relazione con una persona che
si dona, non si impone, non pretende, ma irrompe libera e si presenta con
un progetto di novità che supera ogni legge.
Papa Benedetto ci invita a riscoprire il cristianesimo per quello
che è: l’irrompere gratuito di una presenza che ci supera e ci coinvolge
in una esperienza di libertà. Una precettistica minuziosa ed asfissiante,
un bombardamento di precetti e prescrizioni ha finito per soffocare
la bellezza dell’avvenimento cristiano, che è invece la comunicazione della
vita in estrema abbondanza (cfr. Gv 10,10).
Il cristianesimo non è una legge, ma una persona, quella del Figlio
di Dio venuto per donarci il vero Spirito che è «amore, pace, gioia»
(Gal 5,22). Questo progetto divino si è fatto conoscere all’uomo nell’incarnazione
della Parola eterna di Dio, che ha svelato a tutti il mistero della
divina chiamata, rimasto nascosto nei secoli. Tutti gli uomini, senza distinzione,
sono chiamati a formare un nuovo Corpo in Cristo Gesù (Ef 3,6). Questo
è il dono che immette l’uomo nella vita trinitaria di Dio. Il Battesimo
non è un rito di purificazione morale, ma l’immersione nella vita
di Dio Padre, Figlio e Spirito.
Questo è il Vangelo che siamo invitati ad annunciare. Non un insieme
di norme, di riti, di comportamenti, ma la condivisione della vita
del nostro Dio, che ci è donata nel Figlio Gesù e nel suo Spirito.
È questo dono stupendo che dobbiamo saper proporre. Dio ama l’uomo
e in Gesù si comunica a chi lo accoglie in uno scambio d’amore, tanto
da poter dire con l’apostolo Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo
che vive in me» (Gal 2,20). Centrale nella nostra missione è la proposta
di questo dono, è la scoperta di questa realtà, che, accolta, trasforma
tutta la vita dell’uomo offrendogli gli orizzonti ultimi, i destini
pieni.
L’invito del Papa riporta la nostra missione al suo cuore. Annunciare
il dono del cielo che vale anche per chi non lo conosce, ma poterlo
contemplare dà già in terra il centuplo, anticipa il traguardo verso il
quale tendiamo, trasforma la nostra vita in contemplazione, dà senso al
dolore e ci rende capaci di un ininterrotto rendimento di grazie, nonostante
tutti i limiti e le fatiche del quotidiano.
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